Lucius Shepard - Solitaire Station.pdf

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Lucius Shepard
Solitarie Station
( Barnacle Bill, the Spacer, 1992 )
Traduzione di Anna Monaldi
Il modo in cui va il mondo, non i grandi avvenimenti di un'epoca, ma le
cose ordinarie che ci rendono quelli che siamo: l'atroce incidente che è la
nostra nascita; le banali lussurie che per capriccio o per questione
d'orgoglio si trasformano in complesse tragedie d'amore; la crudeltà di ogni
cambiamento; la folle dolcezza delle altre anime che intersecano le orbite
delle nostre vite, viaggiano insieme a noi per un po', lungo la stessa rotta,
quindi deviano allontanandosi nell'oblio, senza lasciarci nemmeno una
forma definita su cui riflettere, né una traccia facilmente comprensibile da
cui trarre un'illuminazione... Spesso mi chiedo come mai, dato che le storie
sono inventate con materiali di questo tipo, il narratore sia generalmente
indotto ad addolcire il crudo fetore della vita, parlando di nobile sacrificio
invece che di perdita dolorosa, riducendo ciò che è tremendo a una semplice
malinconia. La maggior parte delle persone, suppongo, vuole che la verità
venga condita da un pizzico di sentimentalismo. La pericolosa incertezza del
mondo è per loro fonte di sgomento, e per questo desiderano evitare di
esservi posti di fronte con durezza. Tuttavia con questa propensione alla
fuga si dimenticano della profonda tristezza che può sorgere dalla
contemplazione dello spirito umano in extremis, e si rendono ciechi al
bello. A quella bellezza, voglio dire, che è il nucleo della nostra esistenza.
La bellezza che entra attraverso una ferita, che ci sussurra una parola oscura
all'orecchio durante un funerale, una parola che ci induce a stringerci nelle
spalle davanti alla debolezza della nostra afflizione e a dire "No, mai più".
La bellezza che ispira collera, non rimpianto, e che provoca conflitto, non
l'estetica indolente del contemplatore: tutto questo, secondo me, giace al
fondo di ogni storia che valga la pena di raccontare. Ed è questo lo scopo
fondamentale del mestiere di narratore, portare alla luce tale bellezza,
affermare la sua fondamentale importanza e farla brillare traendo spunto dal
naufragio inevitabile delle nostre speranze e dalla miseria del nostro
declino.
Questa, quindi, è la storia più bella che conosco.
Tutto accadde non molto tempo fa a Solitaire Station, oltre l'orbita di
 
Marte, dove le navi-luce vengono montate e lanciate, disperdendosi in scie
lunghe migliaia di chilometri, e accadde a un uomo di nome William
Stamey, altrimenti conosciuto come Bill, lo scocciatore.
Aspettate, molti di voi staranno pensando: "Ho già sentito questa storia.
Ci è già stata raccontata un milione di volte: che senso ha ripeterla?"
Ma cosa avete sentito, in realtà?
Che Bill fosse un ragazzo dolce e sciocco, posso immaginarlo. E posso
immaginarmi anche che abbiate sentito che fosse un tipo spensierato, con la
scintilla dorata del Creatore nel petto e negli occhi l'aspetto ispirato di colui
che vede l'avvenire, un amico per tutti quelli che lo conoscevano. E che
fosse un eletto e non un ritardato, un lunatico e non uno sconsolato, uno
sfortunato piuttosto che un profanato, un tormentato, o uno verso il quale si
è peccato.
Se questo è il caso, allora fareste bene a prestare attenzione, poiché in Bill
c'era tanto l'uomo quanto il ragazzo, nessuno dei due spensierato come
dicono, e le cose che ha fatto e come le ha fatte sono in definitiva meno
importanti di ciò che lo ha mosso a farle, e questo riflette la povertà
spirituale e la disperazione del nostro tempo.
Di tutto questo, sospetto, non avete sentito praticamente nulla.
Al tempo della mia storia, Bill aveva trentadue anni: era un tipo
dinoccolato, trascurato, con un pessimo odore e i segni di una calvizie
incipiente, con una faccia stupida tipo luna piena i cui tratti - occhi azzurri e
scialbi, bocca incurvata come l'arco di Cupido e naso camuso - erano
troppo piccoli rispetto all'insieme, e ne lasciavano vuota una larga parte.
Aveva sempre le mani sporche e la tuta d'ordinanza della stazione cosparsa
di macchie. Raramente girava senza una piccola borsa di tela nella quale
portava, tra l'altro, un tesoro nascosto di caramelle e cristalli pornografici in
RV. Era la sua predilezione per le caramelle e la pornografia che ci metteva
a contatto di frequente. La donna con cui vivevo, Arlie Quires, gestiva
l'ufficio approvvigionamento al quale Bill doveva recarsi per rifornire le
sue scorte e dove occasionalmente, quando i miei doveri alla sezione di
Sicurezza me lo consentivano, davo una mano al bancone. Bill preferiva che
fossi io a servirlo: capite, era intimidito da chiunque incontrasse, ma
soprattutto dalle ragazze carine. E Arlie, bruna, flessuosa e dall'aria sveglia,
non solo era carina, ma aveva una lingua tagliente che lo metteva ancora di
più in difficoltà.
Ci fu un episodio in particolare che potrebbe servirci per illustrare qual
era la condizione di Bill e fornire un antefatto per tutto quello che in
seguito si sarebbe verificato. Accadde un giorno, sei mesi prima del ritorno
della nave-luce Perseverance. Era appena cambiato il turno sulle
piattaforme di assemblaggio, e il bar dello spaccio era pieno di operai. Arlie
era scappata via da qualche parte, lasciando me al suo posto, e dalla mia
 
posizione dietro il bancone - situato in un'anticamera con tavoli di metallo e
sedie tutte vuote in quel momento, le cui pareti erano coperte dal fotomural
olografico di un cielo azzurro sulle ormai defunte distese dell'Alaska -
potevo vedere delle luci colorate fluttuare avanti e indietro all'interno del
bar e udire i ritmi insistenti di un gruppo techno.
Bill, come era sua abitudine, fece capolino dal corridoio per essere sicuro
che non ci fosse nessuno dei suoi nemici, quindi entrò con passo strascicato,
gettando occhiate a destra e a sinistra, abbassando la testa e incurvando le
spalle: il tipico modo di fare del tipo colpevole. Mi fece vedere il suo
contasoldi, con tre spie verdi che scintillavano sull'affilato cilindro di
metallo, indicando la somma di credito che era in procinto di rilasciare allo
spaccio, e chiese con la sua stridente voce nasale che gli dessi della "roba
nuova", intendendo con questo dei nuovi cristalli in RV.
- Non ho niente di nuovo per te - gli dissi.
- È arrivata una nave. - Mi lanciò un'occhiata feroce e sospettosa. - L'ho
vista. Ero fuori e l'ho vista!
Quella mattina Arlie e io avevamo litigato, una insignificante divergenza
di opinioni riguardo il diritto di usare per primi le linee riservate per parlare
coi parenti a Londra, linee di solito particolarmente sovraccariche. Di
conseguenza, non avevo il minimo desiderio di imbarcarmi in conversazioni
di questo tipo. - Non fare lo stronzo - dissi, - lo sai che non hanno ancora
sbarcato il carico.
Il sospetto nello sguardo sospettoso di Bill vacillò, ma non scomparve. -
Hanno già scaricato - disse. - Le slitte andavano avanti e indietro. - I suoi
occhi si persero per un istante e la testa prese a oscillargli, come se stesse
immaginando di essere ancora fuori sulla superficie della stazione, a
guardare le slitte entrare e uscire dai portelloni di carico; invece stava
fissando, mi accorsi, una sezione del mural olografico nella quale un orso
bruno era appena uscito a passo lento dai boschi e annusava una pila di rami
e tronchi di alberi giovani, posta sul bordo di un ruscello, che avrebbe
potuto essere la diga di un castoro. Anche se non ne aveva mai visto uno, gli
animali affascinavano Bill, e se si trovava a non aver niente di importante da
dire, si metteva a blaterare di giraffe ed elefanti, canguri e balene, e bestie
persino più esotiche, tutte ormai esistenti solo nelle leggende.
- 'Fanculo! - dissi. - Anche se hanno scaricato, tra operazioni e inventario,
ci vorrà una settimana o più prima che vediamo la merce. Se vuoi qualcosa
in particolare, dammi un ordine specifico. Non bighellonare fin qui a dirmi -
cercai di imitare la sua pronuncia, - "dammi della roba nuova".
Due uomini e una donna erano entrati dal corridoio proprio mentre
parlavo; si misero in fila, tenendosi a una buona distanza da Bill, e quando
sentirono che lo rimproveravo mi guardarono, facendomi sapere con dei
sorrisetti di complicità che erano d'accordo con l'asprezza della mia
 
risposta. Mi fecero vergognare di avergli urlato contro.
- Ascolta - dissi sapendo che Bill non sarebbe mai stato in grado di
cavarsela in una situazione come quella. - Posso sceglierti qualcosa io?
Forse riesco a trovarne uno o due che ancora non hai visto.
Chinò la grossa testa e annuì, con bovina sottomissione. Da come si
muoveva si capiva che avrebbe voluto voltarsi a controllare se le persone
intorno avessero assistito alla sua umiliazione, ma che non riusciva a farlo.
Fremeva e si contorceva come se quegli sguardi lo pungessero, con le mani
strette al bordo del bancone, le dita quasi tutt'uno con la superficie levigata.
Quando tornai dal magazzino, diverse persone erano entrate dal corridoio
e una mezza dozzina di uomini e donne bighellonavano vicino all'ingresso
del bar, ridendo e parlando.
Tra di loro c'era Braulio Menzies, forse il più zelante tra i tormentatori di
Bill, un uomo alto, tendente alla calvizie, dal colorito giallastro, con i
capelli neri e unti e le spalle strette, degli immensi avambracci e una
mefistofelica barbetta caprina sale e pepe che conferiva ai suoi tratti
generosi un aspetto decisamente minaccioso.
A San Paolo aveva lasciato sette figli, una moglie e una madre per
prendere il posto di caposquadra responsabile di unità metallurgiche, e la
parte migliore della sua paga veniva mandata alla famiglia, lasciandogli
poco da spendere in divertimenti. Se beveva, ed era evidente che lo faceva,
non riuscivo a immaginare nessun altro motivo per farlo se non le notizie da
casa. E siccome non sembrava essere d'umore allegro, probabilmente le
notizie non erano buone.
Nella stanza l'ostilità era palpabile come un profumo a buon mercato.
Bill era ancora in piedi, con la testa abbassata e le mani strette al bancone,
ma non manteneva più quell'atteggiamento passivamente: si era fatto rigido,
il collo teso, le dita premute sulla plastica, riconoscendosi come il bersaglio
di ogni bisbiglio di disprezzo e di ogni risata maliziosa. Sembrava sul punto
di esplodere, da quanto si tratteneva. Braulio lo fissava con disgusto non
dissimulato e, non appena posai sul bancone la merce per Bill, la bionda
pelle e ossa che se ne stava appiccicata al braccio di Braulio canticchiò: Non
può avere una donna, perlomeno una donna umana, perché lui è Bill e
non ha la mente sana.
Vi fu un generale scoppio di risa, e il volto di Bill si fece rosso; un suono
deforme e rotto gli uscì dalla gola. La ragazza, coi seni minuscoli che
uscivano per metà da un succinto vestito di plastica blu luminosa, continuò
a cantare la sua canzoncina crudele.
- Oh, davvero brillante! - dissi. - La creatività della mente non cessa mai
di stupire! - Ma il mio sarcasmo non le fece alcun effetto.
Spinsi verso Bill tre cristalli RV e due manciate di caramelle dure, le sue
preferite. - Ecco - dissi, facendo del mio meglio per dare un tono gentile alla
 
voce, cercando allo stesso tempo di fargli capire qual era la situazione. -
Ora però non startene qui impalato.
Ebbe un fremito. Le sue palpebre si aprirono tremando, e sollevò lo
sguardo per incontrare il mio. La sua espressione era dominata dalla rabbia,
che gli induriva i banali contorni del volto. Aveva bisogno della rabbia,
supposi, per conservare un qualche misero senso di dignità, per sfuggire al
terrore che cresceva in lui, e non aveva il coraggio di affrontare nessun
altro.
- No! - esclamò, colpendo le caramelle col palmo della mano,
sparpagliandone la maggior parte sul pavimento. - Mi hai imbrogliato,
dammene di più, me ne devi di più.
- Sarà meglio che ti facciamo vedere la strada, babau! - disse un uomo di
colore, sporgendosi da sopra la spalla di Bill. - Così viaggi meglio! - Altri
gli fecero eco, e uno spinse Bill verso il corridoio.
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Gli occhi di Bill erano fissi sui miei. - Mi hai imbrogliato. Dammi
dell'altra roba! Me ne devi di più!
- Perfetto! - dissi, mentre la mia calma spariva. - Sono un essere umano
totalmente disonesto. Vivo per raggirare gli stolti come te. - Aggiunsi poche
caramelle alla pila e cercai di mandarlo via. Braulio venne avanti,
ondeggiando, con gli occhi non troppo limpidi. - Lascia che quel figlio di
puttana resti - esclamò con la voce impastata dalla rabbia. - Voglio
parlargli.
Venni fuori dal bancone e mi misi tra Braulio e Bill. Le mie azioni non
erano dovute a qualche forma di affetto per Bill: anche se non avevo niente
contro di lui, non gli volevo nemmeno bene; credo che lo avessi sempre
considerato più come un problema fastidioso che come una persona. In
parte ero ancora motivato dalla rabbia che mi rimaneva per la lite con Arlie,
e naturalmente come agente della Sezione di Sicurezza era mio dovere
mantenere l'ordine. Ma penso che la ragione effettiva per cui lo difesi fu che
ero annoiato. Tutti a Solitaire eravamo annoiati. Annoiati, di cattivo umore
e disperati, afflitti da quella sorta di febbrile malessere che viene dal senso
di futilità.
- Basta così - dissi seccato a Braulio. - Basta tutti quanti. Andate a farvi
fottere fuori di qui.
- Io non voglio farti male, John - replicò Braulio, barcollando un po'
mentre tentava di mettermi a fuoco. - Basta che ti levi dai piedi.
Un paio di suoi colleghi gli si misero al fianco. Erano Jammer, pirati
dell'etere, con protuberanze argentee che spuntavano dal taglio d'ordinanza:
l'estremità di ricevitori che convogliavano radioonde, energia solare e
segnali di ogni tipo nei vari centri cerebrali, producendo una cinestesia
euforica. Avevo un'avversione filosofica verso il jamming, senza dubbio il
 
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