Mario Puzo - Il Padrino (j.włoski).pdf

(1533 KB) Pobierz
Microsoft Word - Mario Puzo - Il Padrino.doc
Mario Puzo
Il Padrino
Dietro ad ogni grande fortuna c'è un crimine
BALZAC
TEA Tascabili degli Editori Associati S.p.A. Corso Italia 13 - 20122 Milano
© 1969 by Mario Puzo
© 1970, 1992 Casa Editrice Corbaecio s.r.l, Milano Edizione su licenza della Casa Editrice Corbaccio
Titolo originale The Godfather
Prima edizione TEADUE aprile 1998
PARTE PRIMA
I
Amerigo Bonasera sedeva nella III Sezione Penale della Corte di New York in attesa di giustizia;
voleva vendicarsi di chi aveva tanto crudelmente ferito sua figlia e, per di più, tentato di disonorarla.
Il giudice, un uomo severo dai lineamenti pesanti, si arrotolò le maniche della toga nera, come se
intendesse punire fisicamente i due giovanotti in piedi davanti al banco. Il suo viso esprimeva
freddamente un maestoso disprezzo. In tutto questo, tuttavia, c'era qualcosa di falso che Amerigo
Bonasera intuiva, ma non comprendeva ancora.
«Avete agito come la peggior specie di degenerati», disse aspramente il giudice. Sì, sì, pensò Amerigo
Bonasera. Animali. Animali. I due giovanotti, capelli lucidi tagliati a spazzola, viso tutto acqua e sapone
in atteggiamento di umile contrizione, chinarono il capo in segno di sottomissione.
Il giudice continuò: «Avete agito come bestie selvagge in una giungla e siete fortunati di non aver
abusato di quella povera ragazza, altrimenti vi avrei mandato in prigione per vent'anni». Fece una pausa e
gli occhi sotto le sopracciglia straordinariamente folte ebbero un lampo furtivo verso il volto olivastro di
Amerigo Bonasera; poi li abbassò su un cumulo di rapporti mensili di libertà sulla parola che aveva
davanti. Aggrottò le sopracciglia e si strinse nelle spalle, come per mostrarsi convinto suo malgrado. Parlò
di nuovo.
«Tuttavia, grazie alla giovane età, al fatto che siete incensurati e appartenete a famiglie rispettabili,
dato che la legge nella sua magnanimità non cerca vendetta, io con questa sentenza vi condanno a tre anni
di reclusione. Condanna con la libertà condizionale».
Solamente quarant'anni di lutto professionale permisero al viso di Amerigo Bonasera di non mostrare
l'opprimente frustrazione e l'odio che sentiva. Sua figlia, giovane e bella, era ancora all'ospedale con una
mascella fratturata, bloccata da filo metallico; ed ora questi due animali erano liberi? Una farsa! Osservò i
genitori raccogliersi attorno ai cari figlioli. Oh, erano tutti contenti, ora, tutti sorridenti.
La bile nera, acidamente amara, salì nella gola di Bonasera, traboccò attraverso i denti serrati con
forza. Trasse il bianco fazzoletto di lino e lo premette contro le labbra. Era in piedi in questo modo
quando i due giovani percorsero liberi a lunghi passi la corsia, sicuri di sé, con occhi freddi, sorridendo,
gettandogli appena uno sguardo. Li lasciò passare senza dire una parola, premendo il lino fresco contro la
bocca.
I genitori degli animali stavano ora avvicinandosi: due uomini e due donne della sua età, ma più
americani nel modo di vestire. Lo guardarono di sfuggita, imbarazzati, però nei loro occhi vi era una
strana luce trionfante di sfida.
Perso il controllo, Bonasera si chinò in avanti verso la corsia e gridò raucamente: «Piangerete come ho
pianto io. Vi farò piangere come i vostri figli hanno fatto piangere me». Ora aveva il fazzoletto premuto
sugli occhi. Gli avvocati della difesa arrivarono da dietro e spinsero avanti i loro clienti in un gruppo
ristretto, circondando i due giovanotti che erano indietreggiati lungo la corsia come a proteggere i
genitori. Un gigantesco agente di servizio si mosse velocemente per bloccare la fila in cui stava Bonasera.
Ma non fu necessario.
Durante tutti gli anni trascorsi in America, Amerigo Bonasera aveva confidato nella legge e
nell'ordine. E perciò vi aveva prosperato. Ora, sebbene il suo cervello fosse sconvolto dall'odio, sebbene
la prospettiva di comperare un fucile e uccidere i due giovanotti gli martellasse nel profondo del cranio,
Bonasera si girò verso la consorte ancora ignara e le spiegò: «Ci hanno preso in giro». Fece una pausa e
poi prese la sua decisione, senza più temere quale ne sarebbe stato il prezzo. «Per avere giustizia
dobbiamo andare in ginocchio da Don Corleone».
In un appartamentino lussuosamente ammobiliato di un albergo di Los Angeles, Johnny Fontane si era
ubriacato per gelosia proprio come un qualsiasi comune marito. Abbandonato su un divano rosso bevve
direttamente dalla bottiglia di scotch che teneva in mano, poi si sciacquò la bocca affondandola in un
secchiello di cristallo colmo di cubetti di ghiaccio e acqua. Erano le quattro del mattino e stava
inseguendo fantasie da ubriaco su come uccidere la moglie quando sarebbe ritornata a casa. Se mai
l'avrebbe fatto. Era troppo tardi per telefonare alla prima e chiederle delle bambine e trovava ridicolo
chiamare qualcuno degli amici proprio ora che la carriera stava declinando. Un tempo sarebbero stati
felicissimi di venir chiamati alle quattro del mattino, ma ora li avrebbe seccati. Poteva persino sorridere
un po' al pensiero che lungo l'arco della carriera i guai di Johnny Fontane avevano affascinato alcune delle
più grandi dive d'America.
Tracannando dalla bottiglia di scotch, udì finalmente sua mo-glie che apriva la porta, ma continuò a
bere finché entrò nella stanza e gli si fermò davanti. Per lui era assolutamente bella, il viso angelico, gli
espressivi occhi color viola, il corpo delicatamente fragile ma dalle forme perfette. Sullo schermo la sua
bellezza veniva esaltata, spiritualizzata: centinaia di milioni di uomini sparsi in tutto il mondo erano
innamorati del viso di Margot Ashton. E pagavano per vederlo sullo schermo.
«Dove diavolo sei stata?», domandò Johnny Fontane.
«Fuori a farmi scopare», gli rispose.
Aveva valutato male la sua ubriachezza. Egli balzò oltre il mobile-bar e l'afferrò per la gola. Ma, così
vicino a quel magico volto, agli affascinanti occhi violetti, la sua rabbia sbollì e divenne di nuovo
impotente. Lei fece l'errore di sorridere in modo beffardo, vide il pugno di lui prepararsi a colpire. Urlò:
«Johnny, non sul viso, sto girando un film».
E rideva. La colpì con un pugno nello stomaco ed ella cadde sul pavimento. Le rovinò sopra. Ne
poteva sentire l'alito fragrante mentre annaspava in cerca di aria. La colpì ancora sulle braccia e sui
muscoli delle cosce delle morbide gambe abbronzate. La picchiò come aveva picchiato tanto tempo prima
mocciosi più piccoli di lui, quando era un ragazzaccio nell'Hell's Kitchen di New York. Una dura
punizione, ma che non avrebbe lasciata sfregi permanenti come denti dondolanti o nasi rotti.
Tuttavia non la colpiva abbastanza duramente. Non poteva. E lei stava ridendogli in faccia. A braccia
spalancate sul pavi-mento, con la gonna di broccato sollevata oltre le cosce, lo ingiuriava fra il riso. «Dai,
mettilo dentro. Mettilo dentro, Johnny, è quello che vuoi veramente».
Johnny Fontane si alzò. Odiava la donna stesa per terra, ma la bellezza la proteggeva come uno scudo
magico. Margot rotolò via e con un balzo da danzatrice fu in piedi di fronte a lui. Si mise a ballare in
modo infantile, deridendolo e cantilenando: «Johnny non mi fa mai male, Johnny non mi fa mai male».
Poi, quasi con tristezza, con il bel volto divenuto improvvisamente grave, disse: «Povero, stupido
bastardo, che mi picchia come un bambino. Ah, Johnny, sarai sempre uno stupido, romantico terrone,
persino l'amore lo fai come un bambino. Credi ancora che fottere sia veramente come quelle canzoni
narcotizzanti che usavi cantare». Scosse il capo e continuò: «Povero Johnny. Addio, Johnny». Andò in
camera da letto e la udì girare la chiave nella toppa.
Sedette sul pavimento col viso fra le mani. Una morbosa, umiliante disperazione lo sopraffece. Poi la
durezza dei bassifondi che l'aveva aiutato a sopravvivere nella giungla di Hollywood gli fece alzare la
cornetta del telefono e chiamare una macchina che lo accompagnasse all'aeroporto. Una sola persona
poteva salvarlo. Sarebbe ritornato a New York. Sarebbe tornato a quell'unico uomo potente, della cui
saggezza aveva bisogno, nel cui affetto ancora confidava. Il suo Padrino Corleone.
Il panettiere Nazorine, tozzo e ruvido come le sue grandi pagnotte italiane, ancora bianco di farina,
guardava torvo la moglie, la figlia nubile, Katherine, e il suo aiutante, Enzo. Enzo aveva indossato
l'uniforme di prigioniero di guerra col bracciale verde ed era terrorizzato dall'idea che questa scena
potesse farlo arrivare in ritardo al Governor's Island. Uno delle migliaia di prigionieri dell'esercito
italiano, liberati giornalmente sulla parola per lavorare a favore dell'economia americana, viveva nella
costante paura che quella parola fosse revocata. E così la piccola commedia che ora stava per essere
rappresentata, per lui, era una faccenda seria.
Nazorine chiese fieramente: «Hai disonorato la mia famiglia? Hai fatto uno speciale regalino a mia
figlia per farti ricordare ora che la guerra è finita e sai che l'America ti rimanderà con un calcio in culo al
tuo villaggio pieno di merda in Sicilia?».
Enzo, un ragazzo molto piccolo ma robusto, mise una mano sul cuore e rispose quasi in lacrime, però
molto intelligentemente: « Padrone, giuro sulla Santa Vergine che non ho mai approfittato della vostra
bontà. Amo vostra figlia col massimo rispetto. Ne chiedo la mano con tutto il rispetto. So di non averne
diritto, ma se mi rispediscono in Italia non potrò mai ritornare in America. Non potrò mai sposare
Katherine».
La moglie di Nazorine, Filomena, venne all'essenziale. «Basta con queste sciocchezze», disse al tozzo
marito. «Sai cosa devi fare. Tieni qui Enzo, mandalo a nascondersi dai nostri cugini a Long Island».
Katherine piangeva. Era ormai grassoccia e piuttosto scialba e cominciava già ad apparire un'ombra di
baffi. Mai avrebbe potuto conquistare un marito bello come Enzo, mai avrebbe trovato un altro uomo che
le toccasse il corpo in posti segreti con tanto rispettoso amore. «Andrò a vivere in Italia», strillò al padre.
«Scapperò se non terrai qui Enzo».
Nazorine le lanciò uno sguardo astuto. Era un tipo che «ci stava» questa sua figliola. L'aveva vista
strofinare le natiche prosperose contro il davanti di Enzo che spingeva mentre l'aiuto panettiere riempiva
le ceste del banco con le pagnotte appena tratte dal forno. La calda pagnotta del giovane briccone sarebbe
finita nel forno di lei, pensava Nazorine indecentemente, se non si fossero fatti i passi necessari. Enzo
doveva essere trattenuto in America e fatto cittadino americano. C'era un solo uomo che poteva sistemare
una simile faccenda. Il Padrino. Don Corleone.
Tutte queste persone e molte altre ancora, ricevettero l'invito stampato per il matrimonio di Miss
Constanzia Corleone, che doveva essere celebrato l'ultimo sabato dell'agosto 1945. Il padre della sposa,
Don Vito Corleone, non dimenticava mai i vecchi amici e i vicini, sebbene ora vivesse in una casa enorme
a Long Island. Il ricevimento avrebbe avuto luogo in quella stessa casa e i festeggiamenti sarebbero
continuati per tutto il giorno. Senza dubbio un avvenimento importante. La guerra coi giapponesi era
appena finita, cosí non vi sarebbe stato alcun timore che le preoccupazioni per i figli combattenti
potessero rattristare la festa. Un matrimonio era proprio quello che ci voleva, affinché la gente potesse
mostrare la sua gioia.
Cosí quel sabato mattina gli amici di Don Corleone si rovesciarono fuori New York City per rendergli
onore. Portavano buste color crema gonfie di denaro come regalo per la sposa. Niente assegni. Un
biglietto da visita stabiliva l'identità del donatore e la misura del suo rispetto per il Padrino. Un rispetto
pienamente guadagnato.
A Don Vito Corleone tutti si rivolgevano per aiuto senza mai venire delusi. Non faceva vane promesse
e neppure avanzava scuse vili di aver le mani legate da forze più potenti. Non era necessario che fosse
amico, e neppure avere i mezzi con cui ripagarlo. Una sola cosa era fondamentale. Che il supplicante, lui,
lui stesso, proclamasse la sua amicizia. E allora, non aveva importanza quanto povero o quanto debole
fosse, Don Corleone avrebbe preso a cuore i guai di quell'uomo. Nulla avrebbe lasciato di intentato per
risolverne il caso. La sua ricompensa? Amicizia, il rispettoso titolo di "Don", e qualche volta il più
affettuoso omaggio di "Padrino". Forse solamente in segno di rispetto, ma mai per interesse, qualche
umile regalo: un bottiglione di vino genuino o un cestino di taralli pepati preparati apposta per allietare la
sua tavola natalizia. Era sottinteso, era una mera questione di buone maniere, che ci si doveva proclamare
suoi debitori e che egli aveva il diritto in qualsiasi momento di chiedere di estinguere il debito con
qualche piccolo servizio.
Ora in questo grande giorno, il giorno del matrimonio della figlia, Don Viro Corleone stava sulla
soglia della casa di Long Beach a ricevere gli ospiti, tutti conosciuti, tutti fidati. Molti dovevano la loro
fortuna al Don e in questa occasione intima si sentivano liberi di chiamarlo apertamente «Padrino».
Persino le persone che prestavano servizio erano amici. Il barista era un vecchio compagno il cui regalo
consisteva in tutte le bevande alcoliche per il matrimonio e nella sua esperta prestazione. I camerieri erano
compari dei figli di Corleone. Il cibo, sulle tavole da picnic in giardino, era stato cucinato dalla moglie del
Don e dalle sue amiche e la decorazione ad allegri festoni del giardino grande un ettaro era stata preparata
da quelle giovani e intime della sposa.
Don Corleone riceveva tutti - ricco e povero, potente e umile - con le stesse manifestazioni di affetto.
Non trascurava nessuno. Tale era il suo carattere. E gli invitati, dal canto loro, proclamavano che stava
tanto bene con l'abito da cerimonia, che un osservatore superficiale avrebbe potuto facilmente scambiarlo
per il fortunato sposo.
In piedi sulla porta insieme a lui, c'erano due dei tre figli. Il maggiore, battezzato Santino ma chiamato
Sonny da tutti tranne che dal padre, era guardato con sospetto dagli italiani più anziani; con ammirazione
dai più giovani. Sonny Corleone era alto - più di 1,80 - per essere della prima generazione americana di
una famiglia italiana, e la chioma di folti capelli ondulati lo faceva sembrare anche più alto. Il viso era
quello di un rozzo Cupido: lineamenti regolari, labbra modellate ad arco fortemente sensuali, mento con
una spaccatura che finiva in una fossetta. Era costruito poderosamente come un toro e tutti sapevano che
era stato così generosamente dotato da madre natura, che la sua martirizzata moglie temeva il letto
matrimoniale come un tempo i miscredenti paventavano la ruota. Si mormorava che quando, da
giovanotto, frequentava le case di tolleranza, persino la più incallita e intrepida puttana, dopo una
ispezione reverenziale al suo mostruoso organo, pretendeva doppia tariffa.
Qui alla cerimonia nuziale, alcune giovani matrone dai fianchi e dalle bocche larghe, valutavano
Sonny Corleone con disinvolti occhi fiduciosi. Ma in questo giorno particolare perdevano il tempo. Sonny
Corleone, malgrado la presenza della moglie e dei tre bambini piccoli, aveva delle mire sulla damigella
d'onore della sorella, Lucy Mancini. Questa giovane ragazza, pienamente consapevole, sedeva ad un
tavolo del giardino nel vestito rosa da cerimonia con una acconciatura di fiori portata sui lucidi capelli
neri. Aveva civettato con Sonny durante la precedente settimana di prove e quella mattina gli aveva stretto
la mano all'altare. Una nubile non poteva fare di più.
A lei non importava se egli non sarebbe mai stato il grande uomo che si era dimostrato il padre. Sonny
Corleone aveva forza, aveva coraggio. Era generoso e, noto a tutti, col cuore grande come il suo organo.
Però non aveva l'umiltà del padre, ma piuttosto un temperamento collerico e irascibile che lo portava ad
errori di giudizio. Sebbene fosse di molto aiuto negli affari paterni, erano in parecchi a dubitare che
potesse divenirne l'erede.
Il secondogenito, Federico, chiamato Fred o Fredo, era un figlio per il quale ogni italiano era disposto
a benedire i santi. Rispettoso, leale, sempre a disposizione del padre, viveva ancora coi genitori all'età di
trent'anni. Era piccolo e corpulento, non bello ma con la stessa faccia da Cupido della famiglia, la criniera
riccioluta di capelli sopra il viso rotondo e le labbra modellate ad arco. Solamente che, in Fred, queste
labbra non erano sensuali, ma come di granito. Incline all'austerità, era ancora un sostegno per il padre;
non discuteva mai; non lo metteva mai in imbarazzo con un comportamento scandaloso con le donne.
Malgrado tutte queste virtú non aveva quel personale magnetismo, quella forza animale, così necessari
per un capo, e neppure per lui si prevedeva che potesse ereditare la guida degli affari della Famiglia.
Il terzo, Michael Corleone, non era con il padre e i fratelli, ma sedeva ad una tavola nell'angolo più
appartato del giardino. Anche lí, però, non poteva sfuggire all'attenzione degli amici di famiglia.
Michael Corleone era il figlio minore del Don e l'unico che aveva rifiutato l'autorità del grande uomo.
Non aveva la faccia greve da Cupido dei fratelli, e i capelli neri lucenti erano lisci piuttosto che ricciuti.
La carnagione era di un marrone-oliva chiaro che sarebbe stata magnifica in una ragazza. Era bello in una
maniera delicata. In realtà vi era stato un tempo in cui il Don si era preoccupato della mascolinità del
figlio minore. Una preoccupazione che fu messa a tacere quando Michael Corleone compì i diciassette
anni.
Ora si trovava ad una tavola all'angolo estremo del giardino per proclamare la sua scelta deliberata di
ripudio del padre e della famiglia. Accanto a lui sedeva la ragazza americana di cui tutti avevano sentito
parlare, ma che nessuno aveva visto sino a quel momento. Aveva, naturalmente, mostrato il dovuto
rispetto e l'aveva presentata a tutti, famiglia compresa, prima della cerimonia nuziale. Non ne furono
favorevolmente impressionati. Era troppo sottile, troppo bionda, il volto era troppo acutamente
intelligente per una donna, i modi troppo liberi per una giovanetta. Anche il nome era ostico ai loro
orecchi; si chiamava infatti Kay Adams. Se avesse detto che la sua famiglia si era trapiantata in America
duecento anni prima e che il suo era un nome comune, essi si sarebbero stretti nelle spalle.
Tutti gli invitati notarono che il Don non prestava particolare attenzione al terzo figlio. Michael era
stato il suo preferito prima della guerra e ovviamente l'erede prescelto per condurre gli affari della
Famiglia, quando fosse venuto il momento. Aveva tutta la forza tranquilla e l'intelligenza del grande
padre, l'istinto naturale di agire in maniera tale che gli uomini non potevano far altro che rispettarlo. Ma
quando era scoppiata la seconda guerra mondiale, Michael Corleone si era presentato volontario nel corpo
dei Marines. Facendolo, aveva sfidato l'espresso divieto del padre.
Don Corleone non aveva alcun desiderio, alcuna intenzione di lasciare che il figlio minore morisse al
servizio di una potenza a lui straniera. Erano stati corrotti i medici, si erano stipulate intese segreta. Era
stato speso un gran mucchio di soldi per prendere le precauzioni necessarie. Ma Michael aveva ventun
anni e non si poteva niente contro la sua caparbietà. Si arruolò e combatté nel Pacifico. Divenne capitano
e fu decorato. Nel 1944 la sua fotografia venne pubblicata sulla rivista Life con un resoconto delle sue
gesta. Un amico aveva mostrato la rivista a Don Corleone (la famiglia non aveva osato), e il Don aveva
grugnito sdegnosamente dicendo: «Ha compiuto quei miracoli per degli stranieri».
Quando Michael Corleone era stato smobilitato all'inizio del 1945, in convalescenza per una ferita
invalidante, non sapeva che suo padre ne aveva combinato il congedo. Rimasto a casa per poche
settimane, senza consultare nessuno, era poi entrato nel Dartmouth College di Hanover, nel New
Hampshire, abbandonando così i suoi. Ora ritornava da loro per il matrimonio della sorella e per
presentare la futura moglie, quello sbiadito straccetto di ragazza americana.
Michael Corleone stava divertendo Kay Adams, raccontandole aneddoti su alcuni dei più pittoreschi
invitati al matrimonio. Dal canto suo era incantato nel vedere come lei trovasse interessanti queste
persone e, come sempre, ammaliato dall'intensa curiosità che Kay dimostrava verso tutto ciò che era
nuovo e lontano dalla sua esperienza. Alla fine l'attenzione di lei fu attratta da un gruppetto di uomini
radunati intorno ad una botte di vino fatto in casa. Erano Amerigo Bonasera, Nazorine il Fornaio,
Anthony Coppola e Luca Brasi. Con la solita intelligenza vivace fece osservare che quei quattro non
sembravano particolarmente allegri. Michael sorrise. «No, non lo sono», disse. «Stanno aspettando di
vedere mio padre in privato. Hanno dei favori da chiedergli. Ed era davvero evidente come tutti e quattro
seguissero costantemente il Don con gli occhi.
Mentre Don Corleone era occupato a ricevere gli invitati, una berlina Chevrolet nera si arrestò al lato
opposto dello spiazzo asfaltato. I due uomini sul sedile anteriore trassero dei taccuini dalle tasche e,
apertamente, presero nota dei numeri di targa delle macchine parcheggiate nello spiazzo. Sonny si girò
verso il padre e disse: «Quei tipi li devono essere piedipiatti».
Don Corleone si strinse nelle spalle. «Non sono padrone della strada. Possono fare ciò che vogliono».
Il greve viso da Cupido di Sonny divenne rosso dalla rabbia: «Quei bastardi pidocchiosi non rispettano
nulla». Abbandonò i gradini della casa e attraversò lo spiazzo arrivando sin dove era ferma la berlina nera.
Portò irosamente la faccia vicina a quella del conducente, il quale non si ritrasse, ma spalancò il
portafoglio per esibire una carta d'identità verde. Sonny indietreggiò senza pronunciare una parola. Sputò
in modo che la saliva colpisse la portiera posteriore della berlina e se ne andò. Sperava che il conducente
scendesse di macchina per seguirlo nello spiazzo, ma non accadde nulla. Quando raggiunse i gradini di
casa disse al padre: «Quei tipi sono dell'FBI. Stanno prendendo nota di tutti i numeri delle targhe. Sporchi
bastardi!».
Don Corleone sapeva chi fossero. Gli amici più intimi e prediletti erano stati avvertiti di partecipare al
Zgłoś jeśli naruszono regulamin